rappresentavano la fine dell'anno vecchio e
l'inizio del nuovo. Era una festa d'origine contadina: nella metà di febbraio
moriva l'inverno e si avvicinava la primavera e così con il carnevale un ciclo
di stagioni finiva e un altro ne incominciava. Un corteo di maschere faceva
parte delle celebrazioni di carnevale ed erano fantasmi o anime di morti che
stranamente rassicuravano la gente perché offrivano la protezione ai vivi e al
raccolto.
Durante il Medioevo, il clero tollerò le feste popolari,
anche le più grossolane.
Durante il Carnevale tutti si consideravano uguali. Il senso di estraneità
spariva e si stabilivano forme di comunicazione che abolivano ogni distanza.
A partire dal quattrocento, il Carnevale subì una serie
di attacchi.
Dopo i tentativi di cristianizzazione per merito di
moralizzatori come il Savonarola, sia la Controriforma, sia le Chiese
cercheranno di sopprimere questa festa sicuramente troppo pagana.
Durante i secoli, il Carnevale, ha stimolato la nascita
di celebrazioni, in cui venivano evidenziate le lotte fra varie parti di una
stessa Città (quartieri, rioni, come ancor oggi avviene ad esempio nella
battaglia delle arance di Ivrea), o fra classi sociali diverse dei cittadini.
CARNEVALE ROMANO
Anche se estinto da oltre un
secolo, il Carnevale Romano occupa un posto di rilievo fra le tradizioni
popolari più importanti della città. Consisteva in una colossale festa pubblica
della durata di otto giorni, che si chiudeva la notte del Martedì Grasso, con
l'avvento della Quaresima. In realtà i festeggiamenti cominciavano undici
giorni prima, di sabato, ma il venerdì e la domenica erano vietate le corse e
le mascherate, così i giorni effettivi si riducevano a otto.
L'abitudine
di indire manifestazioni di svago prima della Quaresima ebbe inizio nel
X secolo, anche se in forma di giochi e tornei, solo in seguito tramutati
in feste di piazza. Divenne presto uno degli appuntamenti più attesi dell'anno,
richiamando gente anche da fuori città. Durante il Rinascimento il Carnevale
Romano superò in fama persino quello celeberrimo di Venezia.
L'importanza della festa per i
romani veniva accresciuta dal fatto che solo durante questo breve periodo era
consentita la trasgressione di alcune rigide disposizioni in materia di ordine
pubblico, in gran parte basate su codici religiosi.
Insomma,
a Carnevale ci si poteva prendere qualche libertà, anche verso la classe
dirigente (clero e nobili), che in altri periodi dell'anno sarebbero costate la
galera o peggio e non era raro che qualcuno si lasciasse andare ad eccessi di
ogni sorta.
I
festeggiamenti però erano tutt'altro che garantiti: ogni anno si doveva
attendere che il Papa con un editto apposito concedesse la licenza di tenerli.
In genere nei Giubilei (o Anni Santi) l'intero programma veniva soppresso, e
sostituito da celebrazioni liturgiche. Anche la morte di un Papa poteva far
sospendere le feste (ad esempio quella di Leone XII, nel 1829).
Il primo luogo dei
festeggiamenti del Carnevale Romano fu piazza Navona dove sin dal medioevo si
svolgevano tauromachie e tornei di cavalieri consistenti nel colpire un
bersaglio rotante (un saracino) oppure infilzare un anello con una
lancia.
A questa si aggiunse il Monte
Testaccio, presso il confine sud-ovest dell'allora confine urbano, area pressoché
disabitata; qui si praticava una tradizione abbastanza cruenta detta la
ruzzica de li porci. In cima alla collina artificiale venivano allestiti
carretti con sopra diversi maiali vivi, che poi venivano fatti rotolare lungo
la ripida fiancata; nella corsa i carri si rovesciavano, si fracassavano,
mentre a valle si radunava una gran folla che si contendeva gli animali (o
quanto ne restava) in una gigantesca e sanguinolenta ressa.
Verso la metà del '400 i festeggiamenti cambiarono sede per ordine di papa
Paolo II, che essendo veneziano colse l'occasione per valorizzare il suo
Palazzo Venezia appena costruito, ovviamente in piazza Venezia. Come teatro
delle feste carnevalesche fu scelta l'adiacente via del Corso, allora ancora
chiamata via Lata (periferia nord della Roma rinascimentale).
Qui la fantasia popolare partorì
un'altra competizione quanto mai bizzarra e decisamente crudele: una corsa
lungo il rettifilo di circa 1.5 Km a
cui prendevano parte zoppi, deformi, nani, etc. Il popolo gioiva alla vista
degli strani competitori, e non risparmiava loro piccanti battute ed il lancio
di ogni sorta d'oggetti.
Fu Clemente IX che nel 1667 pose fine alla barbarie.
Si tenevano anche
manifestazioni più innocue: sfilate di maschere (erano molto in voga quelle dei
personaggi della Commedia dell'Arte, come Pulcinella o Arlecchino), festini
(balli pubblici che duravano tutta la notte), lanci di confetti
(pallottole di gesso colorato) e di sbruffi (equivalenti agli attuali
coriandoli).
L’atto conclusivo del
Carnevale, la sera del Martedì Grasso, era caratterizzato con la suggestiva
Corsa dei Moccoletti, fatta cioè reggendo candele o lumini e tentando, nel
correre, di spengere le fiammelle altrui.
A sostituire nel favore popolare
la corsa ormai vietata degli storpi, era la Corsa dei Barberi, cioè dei cavalli
berberi, una razza non molto alta ma muscolosa. Si ripeteva ben otto volte,
quanti erano i giorni di feste, e si svolgeva poco prima del tramonto.
I barberi venivano
lanciati senza fantino da piazza del Popolo (fase detta mossa o smossa
dei barberi), e raggiungevano a tutta velocità l'estremità opposta del
Corso, piazza Venezia dove si tendeva un telone per fermare i cavalli, mentre i
barbareschi, mozzi di scuderia, dando sfoggio di coraggio e di muscoli
si gettavano tra di loro tentando di bloccarli a viva forza (cosiddetta ripresa
dei barberi), in mezzo al trambusto generale.
Il proprietario del cavallo vincitore riceveva in premio un palio, cioè un
drappo di stoffa preziosa e ricamata.
A rendere pericolosa per gli
spettatori la stessa corsa era la strettezza della via, gremita di gente. I
signori assistevano dai balconi (in affitto), ma i più rimanevano in strada, su
un gradino, oggi scomparso, che correva come un'alto ma stretto marciapiedi ai
lati della strada.
Nel 1874, durante la corsa un
giovane improvvisamente attraversò la strada mentre sopraggiungeva un cavallo,
e morì proprio sotto gli occhi dei reali. Vittorio Emanuele II abolì la
manifestazione, che da allora non fu mai ripetuta. Questo segnò la fine della
corsa, e anche del Carnevale Romano che vi era così strettamente legato. Oggi
ne rimane solo il lontano ricordo, nel nome stesso di via del Corso.
Maschere
romanesche
La maschera copre il volto e ne cela le fattezze,
sottolinea l'espressività di un volto, ne accentua i naturali caratteri o ne
crea di nuovi.
Le maschere sono sempre state utilizzate sia per creare
terrore nel nemico, si pensi alle maschere guerresche che venivano utilizzate
ed ancora sono utilizzate da numerosi popoli, sia per arricchire l'espressività
del volto di un attore, si pensi alla tragedia greca ed alle maschere tragiche
che gli attori usavano indossare.
Il Carnevale di Roma è ricco di maschere che sono una
ottima caratterizzazione dello stereotipo del popolano o del nobile e ne
interpretano pienamente tutti i vizi e le virtù che ci appartengono e quindi ci
fanno tanto ridere.
Cassandrino
L'origine della
maschera è perlomeno discussa in quanto se ne contendono l'invenzione la
Toscana con Siena ed il Lazio con Roma. Per ciò che è possibile appurare,
probabilmente, il primo Cassandro ebbe sicuramente un'origine senese tanto che
sembra fosse utilizzata fin dal '500 da una congrega di comici detta i Rozzi. A
Roma, però, divenne molto più famoso Cassandrino che a partire dal XIX secolo
fu considerata maschera romana.
Il carattere di
Cassandrino ne fa un bravo padre di famiglia, in origine nobile poi sempre più
borghese per meglio rappresentare le persone comuni, credulone, facile da
raggirare da parte delle figlie o di chi fosse interessato al suo patrimonio,
beffato in amore.
La maschera lo vede con voce nasale, copricapo tricorno, parrucca incipriata,
giubba a coda di rondine, pantaloni chiari e scarpe con fibbia.
Negli anni
anche il carattere si è modificato per rappresentare sempre più il
"sentire" popolare che ne fece portavoce delle recriminazioni e delle
lamentele nei confronti del potere soprattutto papale.
Dalle commedie
che lo rappresentano sono divenute note le espressioni:
«Com'è che a Roma tutti gli asini vanno avanti e tu vuoi andare indietro?»
prendendosela con il suo asino che non voleva camminare ma in realtà
riferendosi al malgoverno clericale;
«Chi porta la
veste ha sempre le gambe storte» ovvero chi porta la tonaca (i prelati) ha
sempre qualcosa da nascondere;
«Solo Preti Qui
Regneno» nuova definizione di S.P.Q.R.
Il successo di
questa maschera è dovuto anche al periodo in cui Pio VII aveva vietato le
rappresentazioni teatrali ed i testi delle opere risultavano quindi
pesantemente censurate.
Il controllo della polizia pontificia era stretto e si racconta che per
rappresentare opere più ardite le compagnie fossero costrette ad ubriacare lo
"sbirro" addetto al controllo sui testi e che alla fine di ogni
rappresentazione gli attori fossero spesso costretti a saldare ogni pendenza
come se fosse l'ultima rappresentazione della commedia.
La popolarità della maschera lo fece apparire più volte sui numeri delle
pubblicazioni satiriche della Capitale.
Don Pasquale
Il suo nome
completo è Don Pasquale de'Bisognosi ma egli odia questo cognome
particolarmente plebeo per un nobile come lui.
La maschera
rappresenta, infatti, un patrizio celibe e all'antica, facoltoso e sciocco. E'
simile a Pantalone ma il suo carattere è meno burbero; si concede alcune
debolezze nel vestire e nell'incipriarsi ma non riesce a salvarsi dai lazzi e
dalle beffe dei camerieri e delle varie servette che lo circondano.
Il suo
desiderio maggiore è quello di risposarsi e come si può immaginare questa
voglia lo coinvolge sempre in situazioni da cui esce puntualmente
"scornato".
La maschera è rappresentata con una parrucca grigia incipriata e profumata,
veste ricca e palandrana, brache al ginocchio e calzature lucide con fibbia.
Rugantino
La caratteristica principale di Rugantino è sicuramente
l'arroganza. Il suo nome, infatti, deriva proprio dal termine
"ruganza" ovvero arroganza.
Il primo Rugantino appariva vestito da sbirro; alcune
volte veniva rappresentato come capo degli sbirri, altre volte come brigante.
Nel corso degli anni queste caratteristiche andarono
perdendosi per identificare la maschera sempre di più con il giovane fanfarone
di quartiere un po' delinquente, pronto con la lingua e sbruffone ma
soccombente al momento di menar le mani.
La maschera tipica lo vede vestito da popolano con un abbigliamento povero:
brache al ginocchio un po' consunte, fascia intorno alla vita, camicia con
casacca e fazzoletto al collo.
La commedia di Garinei e Giovannini interpretata da Aldo Fabrizi ci fornisce
una delle migliori interpretazioni di questo personaggio.
Rugantino si presenta immediatamente come uno sbruffone.
Un giorno vede Rosetta, che con il ricatto è stata costretta a sposare
l'assassino del primo marito (Rugantino questo non lo sa), e scommette con gli
amici che riuscirà a possederla entro la festa di primavera.
Tra le diverse vicende che lo vedono protagonista, lo spettatore conosce poi il
boia Mastro Titta la cui moglie è scappata da anni. Mastro Titta ha conosciuto
una brava donna che però non può sposare visto il suo legame con la prima
moglie. In realtà alla millesima decapitazione il Papa gli darà la tanto
desiderata dispensa per un nuovo legame.
Rugantino conosce Mastro Titta che esegue le pene alle quali il protagonista è
condannato con una certa continuità ma i due probabilmente si rispettano e, non
voglio azzardare, l'anziano boia vede Rugantino quasi come una sorta di figlio.
Rugantino riesce a possedere Rosetta mentre il marito di questa, inseguito
dalla legge, è costretto alla fuga da Roma ma non tiene la bocca chiusa, si
vanta con gli amici anche se in realtà non vorrebbe perchè sente di amarla; Rosetta
lo viene a sapere ed arrabbiata non gli rivolge più la parola.
Una notte il marito di Rosetta torna ma nell'oscurità
viene aggredito ed ucciso per vendetta da un misterioso sicario di cui non si
conoscerà mai l'identità. Rugantino assiste al fatto in quanto sono intere
notti che staziona sotto la finestra dell'amata per farsi perdonare ma quando
si avvicina al corpo del rivale oramai a terra privo di vita viene visto ed
arrestato.
La reazione di Rosetta e della popolazione però lo fa
sentire un eroe. La sua donna lo perdona perchè pensa che l'abbia fatto per
difenderla mentre tutti stupiscono del coraggio che Rugantino ha dimostrato
nell'uccidere quel criminale.
Rugantino diviene conscio della scarsa considerazione che tutti hanno sempre
avuto di lui: lo consideravano un fanfarone arrogante con la lingua lunga ma in
definitiva un bamboccio incapace e senza morale.
Il nostro eroe coglie un'occasione di riscatto e decide
di assumersi la responsabilità dell'omicidio. Sarà proprio l'amico Mastro Titta
a doverlo giustiziare. Guarda caso questa è la sua millesima decapitazione ed
il Papa gli darà la tanto sospirata dispensa proprio con la morte di Rugantino
(beffa della sorte!!).
Meo Patacca
Nel teatro romanesco rappresenta il tipico popolano,
indolente e attaccabrighe ; un tipico bullo, si può dire, facile alla rissa ed
allo scontro sicuramente non vile. Il nome deriva dal termine patacca
che indicava la misera paga del soldato, una somma pari a cinque carlini.
Per costume ha i calzoni stretti al ginocchio da legacci,
una giacca di velluto, una sciarpa di colore sgargiante ed una retina che gli
raccoglie i capelli facendo fuoriuscire solamente un ciuffo.
La sua notorietà è dovuta anche al poema in dialetto romanesco di Giuseppe
Berneri, Meo Patacca ovvero Roma in feste nei trionfi di Vienna. La
composizione in ottave è formata da dodici canti ed è datata 1695-99. Il Meo
Patacca del Berneri è il più bravo tra gli sgherri romaneschi, con una
predisposizione naturale al coraggio ed alla lite. La donna di Meo è Nina che sembra
inventata a sua immagine.
Il coltello è un altro elemento immancabile e necessario
al bravo che vi ricorreva in qualsiasi caso si dovesse fare giustizia.
Secondo la tradizione, e così fece Nina con Meo, la ragazza regalava al ragazzo
quale pegno d'amore un coltello con il proprio nome inciso. Questo era il
compagno fidato da tenere sotto il cuscino la notte e in saccoccia
durante il giorno.
Le maschere minori
Oltre a quelle
citate esiste un numero di maschere minori per alcune delle quali si è
addirittura persa la traccia. Tra quelle ancora note si distingue il Pulcinella
romano o meglio i Pulcinelli romani che animavano i carnevali del passato.
Sono numerosi i resoconti di giornalisti e scrittori anche stranieri che erano
rimasti stupefatti di fronte alla bravura di questi attori. Lo stesso Goethe
riferisce di aver intravisto sotto la maschera di Pulcinella l'attraente corpo
di una donna. Si trattava infatti di intere compagnie teatrali o famiglie,
spesso di origine napoletana, specializzate nell'impersonare o nel
rappresentare commedie di Pulcinella.
Il Dottor
Gambalunga appartiene invece alla schiera dei ciarlatani che sulle
pubbliche piazze la danno ad intendere ai creduloni ed ai semplici, che tentano
di vendere pozioni per l'eterna giovinezza, l'amore, i capelli e chi ne ha più
ne metta.
Il suo abito ha una grande parrucca, vestito nero, enormi occhiali e libro in
mano. Le scenette nascevano dal nulla: il Dottore si aggirava per le vie fino a
quando non trovava un volenteroso che si prestasse allo scherzo e da lì nasceva
una scenetta in cui con latino maccheronico Gambalunga cercava di risolvere i
problemi dell'improvvisato cliente.
Non si devono trascurare poi la maschera di Ghetanaccio raffigurata
sempre con il teatrino sulle spalle intento a raggiungere il prossimo posto in
cui potrà far recitare ai suoi burattini un'altra invettiva contro il potere e
lo Stato rischiando in questo modo la prigione e le Zingaresche da cui
la maschera della zingara che legge il futuro del passante ad un angolo di
strada. Inizialmente le Zingaresche erano una sorta di spettacolino animato da
canti, formule e tentativi di predizione del futuro sulla falsa riga di quelli
usati dagli zingari, successivamente intere compagnie, anche in questo caso, si
specializzarono per intrattenere il pubblico con spettacoli più elaborati. |